La storia siamo noi: Giancarlo Lippi

  • 15 Luglio 2014

Giancarlo Lippi, classe 1930, ti si può considerare il veterano dei rugbisti fiorentini. Come ti sei avvicinato al rugby?
Mi portò dentro un gruppo di ex sportivi tra cui Aldo Mazzini che era un industriale di Prato che aveva giocato, l’anno della Maturità. Mi fecero la matricola a casa mia e mi dissero che io dovevo giocare a rugby e così cominciai era l’anno 1947.

Quindi attraverso l’università, esisteva già la propaganda per gli studenti
Si mi videro, ero fuori regola anche per quei tempi ero 1,87 molto più alto di ora pesavo anche 105 kg, quindi ero perfetto per lo sport del rugby.

Come si è svolta la tua carriera rugbistica
Ho cominciato con la Nazionale Universitaria, sono stato selezionato nella Nazionale A, dove non ho mai giocato, era poche le occasioni, si faceva solo una partita l’anno.

Ho fatto delle tournèè, Ho giocato invece nella nazionale B contro il Commitèè des Alpes, formazione che comprendeva le squadre francesi d’eccellenza, quelle dell’arco alpino, Il Grenobles, il Nizza e altre. Abbiamo per la prima volta battuto il Commitèè des Alpes, era un partita che aveva fatta ogni anno da prima della guerra, a Rovigo, poi abbiamo fatto una tournèè come Nazionale A a Grenoble e a Chantesseon, ma non è uscita nessuna conferma ufficiale per me e sono rimasto un giocatore che ha fatto una tournèè nella Nazionale A.

Un’ultima occasione mi è stata offerta nel 1964 con una convocazione in Nazionale ma non sono andato per impegni familiari e lavorativi.

A livello di Club ho giocato nel Firenze e durante il periodo di leva obbligatoria nella squadra dell’Esercito che si chiamava Commiliter Napoli e con loro ho giocato un anno in Eccellenza con il Napoli. Poi ho giocato un anno con il Livorno, ma a Livorno ci sono stato solo per un campionato. A quei tempi in Toscana ero insieme a Giannardi il giocatore più noto. Non esisteva il professionismo, neanche il semiprofessionismo però vennero a trovarmi il Presidente della Federazione che era livornese si chiamava Aldo Montano, che è il babbo di quello che ha vinto ora i Campionati del Mondo di scherma.

Una cosa buffa è che il babbo di Bini Smaghi, quello che ora era in predicato per la presidenza alla BCE, si chiamava Bino e ha giocato seconda linea con me nel 1947. Sia io che lui, ci fecero entrare per forza perché lui era un campione  italiano di lotta greco romana e libera e pesava 125 kg e siamo stati in seconda linea insieme. Io avevo appena cominciato e lui di bello aveva questa massa enorme. Ecco lui, Bino, è il babbo di Lorenzo Bini Smaghi personaggio della finanza mondiale, ed è tuttora vivente e 86 anni. Ora che il figlio è diventato famoso sono risalito al babbo, vista anche la particolarità del loro cognome. Una famiglia nobile e colta.

classe 1930

CUS FIRENZE ‘49 In piedi: Lippi; Fabbrini (all.); Corbelli (all.); Tessari (all.); Biffoli; Sapio; Martelli; Abruzzese (dir.); Pezzati; Granozio, Filippi, Fabbri. Accosciati: Zelidon; Giannardi, Bacci, Marchini, Tosetti, Tartaglia, Nannotti.

Come ricordi la storia sportiva del CUS Firenze?
La squadra del CUS Firenze era un altalenarsi fra serie A e serie B, non esisteva A e A1 e noi eravamo una squadra “borderline”, quando eravamo in B eravamo nella fascia alta e quando eravamo in A eravamo nella fascia medio bassa. Sempre “borderline”. Io ebbi la fortuna di essere visto mentre giocavo in serie B, perchè di solito i selezionatori della Nazionale andavano a vedere solo la serie A.
Sono entrato nel giro della Nazionale dalla porta di servizio, anche questo ha avuto il suo peso, a quei tempi le seconde linee si prendevano sempre a coppia dalla stessa società, non esistevano gli allenamenti collegiali quindi dovevano essere affiatati. Oppure prendevano addirittura tutta la prima linea. Abbiamo avuto degli ottimi giocatori venuti da Rovigo, che ci hanno conosciuto durante il periodo che erano sfollati a Firenze.

Quando ci fu l’alluvione del Polesine diversi giocatori vennero a dormire al Padovani, Barattella,  Bettarello, Turcato, e poi Turcato restò a giocare con noi.

Erano sfollati per l’alluvione e la città di Firenze ne accolse tanti e noi accogliemmo i giocatori di rugby al Padovani, dormivano nelle vecchie camerate. Poi qualcuno è rimasto a giocare con noi.

Il rugby passato e quello attuale cosa c’è di uguale e cosa c’è di  diverso?
Diverso nel calcolo dei punti, la meta valeva solo 3 punti, come la punizione 3 e la meta solo se trasformata portava un vantaggio di due punti, non c’era il fuorigioco, non c’era il tenuto. Il fuorigioco c’era, ma era sufficiente essere dietro al pallone.
Era diverso il gioco delle terze linee.  Le terze linee potevano staccarsi dalla mischia quando volevano ma potevano essere schierate anche fuori dalla mischia, ora solo con la touche hai un numero compatibile con quello degli  avversari allora le metti fuori perchè non devono stare in linea. Tutte le attenzioni…

Il nostro gioco era molto difensivo, le partite finivano zero a zero o tre a tre, era  la regola. Segnature ce ne era poche. Era un gioco di interdizione, molto più lento, era un gioco a bloccare le azioni degli altri, che era più facile.

Fortunatamente la Federazione Internazionale ha seguito questa involuzione del rugby e ha fatto in modo che le difese venissero ostacolate perchè quando si cresce è più facile crescere in un gioco di difesa che in quello d’attacco perchè è più facile rompere che costruire, cosa che il calcio non ha fatto…

Lo spirito con cui si giocava ai tuoi tempi?
Lo spirito è sempre lo stesso, malgrado il professionismo, lo spirito è rimasto, quando si legge oggi che un uomo come Wilkinson guadagna un ingaggio di 700.000 euro l’anno, ed è il più grande giocatore dei nostri tempi sarebbe paragonabile ai 15 milioni di euro di ingaggio del calcio.

Lo spirito c’è, perchè quando si smette di giocare bisogna che ti ingegni a trovare un lavoro, non hai guadagnato per campare tutta la vita, e ti devi essere costruito qualcosa per campare dopo. E sento che anche i grandi atleti professionisti, anche gli All Blacks sono tutti pronti per le più svariate carriere, sono dentisti, chirurghi, di gente che non sa dove battere il capo dopo, non ce n’è, e questa mi sembra una grande cosa, che mi sembra sia monopolio del rugby, non trovo concorrenti in altri sport.

Alcuni grandi giocatori che vuoi ricordare?
Vorrei ricordare il fiorentino Giannardi un giocatore a livello nazionale fortissimo, mediano di mischia, ogni partita che ha giocato ha segnato una meta. Sia nel Firenze che in tutte le selezioni Nazionali in cui ha giocato. Era un professore di medicina, anche suo fratello giocava a rugby ed era anche lui professore di medicina. Un uomo velocissimo, correva i 100 metri sotto gli 11 netti con le scarpe da rugby. Velocissimo!

Filippi, giocatore tre quarti ala, fortissimo, terrificante, forse troppo duro, ma fortissimo. Molfetta, è stato una forte terza linea.

Tanti giocatori fortissimi venuti dalla Canottieri: Pezzati, poi Consolazio che non sapeva giocare, ma era forte come un demonio. I fratelli Magris, forti tutti e due, Roberto è morto di recente, due grandi giocatori. Colins ed Evans due forti giocatori gallesi che hanno dato tanto alla nostra squadra.

E allenatori?
Tessari e Radicini i più forti allenatori che ho avuto.

Quale messaggio vuoi dare ai giovani che si avvicinano a questo sport?
Questo sport realmente crea delle ottime basi per avere una affermazione positiva nella vita di tutti i giorni.
A consuntivo, non c’è fra i miei ricordi nessuno di noi che nella vita non abbia fatto un percorso positivo, non può essere una coincidenza, è successo troppo di frequente.

Tutti hanno fatto un’ottima carriera, in ogni professione che hanno voluto seguire.

 

A cura di Jacopo Gramigni e Donatella Bernini